Al giorno d’oggi si parla molto di cambiamenti climatici e di come questi si ripercuotano sulle nostre vite, addirittura costringendo alcune popolazioni a spostarsi verso luoghi più sicuri e meno esposti al rischio di scomparsa. Ma vi è mai capitato di pensare che il clima possa avere delle conseguenze non solo sull’essere umano, ma anche sulla lingua, in particolare sul modo di parlare? Alcune ricerche scientifiche hanno rivolto l’attenzione sulla questione svelando dei risultati estremamente interessanti. Vediamo di cosa si tratta.
Caleb Everett, un antropologo americano, ha esaminato alcune lingue tonali, come il cinese, per capire in quale regione del mondo fossero più parlate. Le così dette lingue a toni sono lingue in cui il tono o l’altezza di emissione hanno valore distintivo, ovvero servono a distinguere parole omografe: è il caso del cinese ma che, a seconda del tono impiegato, può significare mamma (mā 妈, primo tono), canapa (má 麻, secondo tono) o ancora cavallo (mă 马, terzo tono). Su 656 lingue tonali, solo 2 sono parlate in regioni secche e fredde; tutte le altre si concentrano in zone calde e umide. Questa osservazione lascia presupporre che i climi umidi favoriscano lo sviluppo di lingue tonali: infatti, dato che la concentrazione del vapore acqueo nell’aria modifica l’equilibrio ionico delle mucose delle corde vocali, un alto tasso di umidità permetterebbe di oscillare più facilmente tra un tono e l’altro, impresa ben più ardua per i locutori delle regioni più secche. Naturalmente, il ricercatore precisa che tale conclusione non implica che un cinese residente in Europa perda la capacità di parlare la sua lingua materna! Lo studio non fa altro che sottolineare la correlazione esistente tra lingue tonali e clima umido.
Passiamo ora a un altro studio, questa volta condotto da Ian Maddieson (University of New Mexico) e Christopher Coupé (Laboratoire Dynamique du Langage-CNRS, Francia). I due ricercatori si sono interessati alla predominanza delle vocali o delle consonanti in alcune lingue. I risultati? Pare che nelle regioni come il Sud-Est Asiatico e le isole del Pacifico si siano sviluppati sistemi linguistici contraddistinti da un gran numero di suoni vocalici mentre nelle zone montuose e boscose come, ad esempio il Caucaso, ci sia una maggiore incidenza di suoni consonantici. I due studiosi hanno preso spunto dal mondo dei volatili: infatti, il canto degli uccelli che si trovano in un territorio con forte presenza di foreste non è lo stesso intonato da quelli che vivono altrove, poiché i suoni si riflettono in maniera diversa a seconda della frequenza sulle foglie e sui tronchi rendendo difficile la comprensione del messaggio.
Ciò rimanda al nostro primo ricercatore, Caleb Everett, che ha anche stabilito una correlazione tra consonanti eiettive e altitudine. L’articolazione di questo tipo di suoni vocalici non avviene sfruttando l’aria proveniente dai polmoni, come invece succede per le vocali; le consonanti eiettive sono prodotte comprimendo una certa quantità d’aria nella faringe ; questo movimento articolatorio provoca anche un innalzamento della laringe che, finalmente, permette l’emissione del suono. Everett sostiene che la minore densità dell’aria in alta quota faciliterebbe il movimento di compressione che presiede l’intero processo articolatorio ; questo fenomeno non sarebbe quindi naturale a basse altitudini poiché richiederebbe uno sforzo maggiore alle corde vocali dei locutori “continentali”.
Anche se è vero che la fonetica di una lingua è inevitabilmente il frutto della cultura e dei popoli che la parlano, numerose ipotesi lasciano pensare che le condizioni climatiche abbiano avuto un ruolo importante nell’evoluzione del linguaggio. Ascoltate un italiano parlare francese e noterete delle forti somiglianze con l’accento della Francia del Sud. Ma dobbiamo presupporre che ciò sia dovuto al legame tra condizioni climatiche affini e lo sviluppo di una fonetica simile in queste due regioni? A voi la parola!